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Cartàstraccia – Filippo Corridoni

CARTASTRACCIA

Il libraio di Altaforte racconta..

Capitolo 12 – Filippo Corridoni

Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario.

Parla così Filippo Corridoni, chiuso in una cella.

Parla e si rivolge più a se stesso che al secondino che lo guarda perplesso tra le sbarre.
Sarà il ventiseiesimo o il ventisettesimo arresto, neanche li conta più, ma questa volta è stato spettacolare: la folla in Piazza Duomo, gli scontri, duri, con la polizia. 100.000 operai! L’immensità!
Si chiede, Corridoni, che fine abbiano fatto i compagni, quel Mussolini che gli era accanto, caduto anche lui ferito dalle cariche della polizia, e Amilcare, sempre in prima fila.
Il pensiero però torna al conflitto, che sembra sempre più vicino, contro gli Imperi centrali, contro quegli austriaci e tedeschi con cui solo nel dopoguerra si ricomporrà quel naturale patto di sangue che li unisce ai destini italici.
L’Europa è in bilico ma la guerra non fa paura. È un dovere rivoluzionario, pensa.
E Filippo Corridoni, sindacalista rivoluzionario, agitatore di folle, è un uomo d’azione: il 25 luglio del 1915, una volta libero, parte per il fronte e qui morirà, viso in faccia al nemico, con una pallottola in fronte, combattendo per la sua Nazione e lasciando ai posteri il dovere rivoluzionario di una guerra che deve essere combattuta soprattutto contro il borghese che è in noi e ci intima, subdolo, di arrenderci per il miraggio di una vita tranquilla, agiata, comoda.

Quella vita che dobbiamo rifiutare ad ogni costo per continuare a combattere.

Per continuare a lottare.
Per andare più avanti ancora!

La sconfitta non ha smorzato nelle menti e nei cuori il fuoco sacro della rivolta perenne e sistematica.

E noi vi soffieremo, su quel fuoco, con tutta la forza della nostra fede, con tutta l’energia dei nostri verdi anni, vi soffieremo finché non divampi alto, bello, fiero, distruggitore.

Quel fuoco Filippo Corridoni lo sente dentro da quando aveva 11 anni appena. Lo sente, quel moto di rabbia e ribellione, quando guarda gli occhi pieni di lacrime di suo padre e sua madre che non possono più permettersi il pane, ormai troppo costoso, per i loro figli.
Lo sente, quando le rivolte dei contadini e degli operai ormai allo stremo vengono represse nel sangue.
Inizia qui, il mondo di Filippo Corridoni, e qui decide chi sarebbe diventato. E perché.

Lo vediamo allora nelle fabbriche, a difesa del lavoro, e lo vediamo a Milano, in Piazza Duomo accanto a Benito Mussolini e di fronte a una folla di 100.000 operai. Un’immensità per quell’Italia che, nel 1914, già intravedeva gli spettri della guerra.
Gli stessi che a Corridoni, come a molti altri, sembrarono (e poi effettivamente furono) l’opportunità per dare concretezza e soffio vitale a quell’idea di Patria e Nazione che ancora sembrava così rivoluzionaria agli occhi di molti.
Sì, Patria e Nazione perché Corridoni era riuscito a compiere e incarnare quel passaggio che, dal sindacalismo rivoluzionario, vedrà nascere il sindacalismo nazionale, quello stesso che, nazionalista, apartitico, pedagogico e interclassista, scenderà in piazza per chiedere a gran voce l’entrata in guerra.

La guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Dovevamo volerla e farla.

E in guerra Corridoni ci andò veramente, partendo per il fronte il 25 luglio 1915. Un’azione sacra, la sua, animata dallo stesso spirito di sacrificio che lo aveva spinto a lasciare il piccolo paesino marchigiano in cui era nato, Pausula (Corridonia, venne ribattezzato nel 1931), per plasmare i destini del mondo.

Morirà, viso in fronte al nemico, con una pallottola in fronte. Le sua spoglie mortali non verranno mai ritrovate. Si persero, insieme ai corpi di decine, centinaia di soldati italiani morti durante la terza battaglia dell’Isonzo, mentre difendevano la trincea, il loro sacro confine.
Non morirà, e non è andato perso, il suo pensiero che, in una società abbruttita e imbelle come quella attuale, ha una spinta ancora più rivoluzionaria.
C’è chi ha scritto che beato è quel popolo che non ha bisogno di eroi ma noi, ora, di eroi abbiamo bisogno. Di esempi. E Filippo Corridoni è uno di quelli.
Eroe del lavoro e martire per l’Italia, ci invita ancora oggi a ricordare che rivoluzionaria non è la classe, ma la nazione.
Che, per andare più avanti ancora, è necessario combattere, lottare. A volte anche morire.
Ci insegna, Corridoni, a distanza di cent’anni e più, che esiste un fuoco sacro, quello della rivolta, che non si spegne e non si spegnerà finché ci sarà qualcuno pronto a soffiarci sopra.
Finché non divampi alto, bello, fiero, distruggitore.

Lorenzo Cafarchio

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