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Cartàstraccia – Jean Raspail

CARTASTRACCIA

Il libraio di Altaforte racconta..

Capitolo 21 – Jean Raspail

È da sempre destino di profeti e Cassandre il non essere ascoltati e creduti.


Lo stesso è successo a Jean Raspail e al suo Il Campo dei Santi che, agli occhi dei più, è uno scritto di fantascienza, talmente artefatto e viziato da lasciare sdegnosamente a prendere polvere.


Eppure. Eppure, proprio come l’inascoltata Cassandra, Jean Raspail muore con davanti agli occhi la trasposizione reale del mondo nato dall’inchiostro della sua penna, con un’Europa e un Occidente imbelli di fronte a un’immigrazione di massa che scardina ogni certezza di una società dimentica di se stessa.
Eccolo, scrive Raspail, “l’uomo di colore scruta l’uomo bianco mentre questi discorre di umanità e di pace perpetua”, fiutandone l’assenza di volontà di difendersi.

Ed eccolo davvero, mentre nel nome dell’antirazzismo abbatte le statue, cancella la storia. E l’uomo bianco che fa? Non protesta, non si difende. Anzi si piega, si inchina di fronte alla sua civiltà distrutta e, dimentico di se stesso e del suo sangue, ne gode. Cade l’Occidente, ne rimangono rovine.

A noi, figli della nostra storia, si chiede di non arrendersi al fatalismo, di non inchinarsi davanti alla barbarie ma, al contrario, di rimanere in piedi in un mondo di rovine.

Jean Raspail - altaforte edizioni

Siamo a New York e dagli schermi televisivi un sociologo commenta l’arrivo di un milione di migranti in Europa mentre, lontano dalla tranquillità dei quartieri alti, la periferia è in preda al crimine e agli scontri razziali tra bianchi e neri.
Sembrava fantascienza nel 1973, nonostante l’America o, in Europa, la fine dell’Algeria francese già davano un assaggio dei problemi, fin troppo concreti, cui il mondo stava andando incontro.


È però destino di profeti e Cassandre il rimanere inascoltati e la stessa sorte è toccata a Jean Raspail e al suo Il Campo dei Santi.

C’è tutto, in quelle pagine, e ciò che sembrava esasperato, talmente estremo da non poterci toccare si è o si sta realizzando. È scomodo parlarne, è anzi vietato: la vulgata politically correct non ammette errori. Eppure l’immagine di quel nero che dalle pagine di Raspail osserva l’uomo bianco mentre questi discute di pace perpetua e umanità e ne fiuta l’incapacità e l’assenza di volontà di difendersi , ora è ben più che realistica. È concreta, è presente, è davanti a noi nelle immagini dei disordini razziali americani, di quelli delle banlieues parigini o dei ghetti del civilissimo Belgio. È nella folla urlante, scomposta che distrugge le statue, che chiede la rimozione dai programmi di studio di Platone, Aristotele, Kant perché sono bianchi e non è ammissibile, non lo è più, studiarli perché bianco significa colonialismo e di conseguenza va eliminato.


Nel nome del politicamente corretto, ormai fuori controllo, si distrugge, si cancella, o almeno ci si prova, la storia occidentale ed europea e i “bianchi” cosa fanno? Non si difendono. Non rispondono. Anzi, si piegano di fronte a questa follia, si inchinano addirittura e baciano le scarpe di predicatori afroamericani per liberarsi dalle colpe dei loro progenitori. Quali colpe? Non è dato sapere. In compenso, dimentichi di loro stessi, esultano gioiosi di fronte alla loro stessa distruzione e mozzano le dita alle statue di Giulio Cesare.
Perché questo sta avvenendo, senza mezzi termini, senza le sviolinate degli intellettuali da salotto che provano a mitigare quando succede, salvo poi considerare culture e identità, tanto più se si tratta di quelle europee, un’invenzione propagandistica del nazionalismo più becero.
Traditori. Del loro passato, della loro terra, della loro gente. Si beano, gli utili idioti del sistema, del loro antirazzismo, antisessismo, antispecismo mentre girano gli occhi dall’altra parte, per non vedere una madre smunta che tende, disperata, verso i cancelli di un consolato il figlio, partorito per qualche ricca coppia. Ma anche il sistema dell’utero in affitto, lo stesso che nei confini ucraini ha lasciato centinaia di neonati bloccati nelle culle perché con l’emergenza coronavirus sono saltati gli acquisti, è progresso per loro, è “civiltà”.
Raspail aveva previsto anche questo, aveva previsto tutto ed è morto il 13 giugno con le immagini delle statue di Colombo decapitate, con le dita mozzate di Giulio Cesare gettate nella polvere, con gli applausi delle bestie iconoclaste di fronte alla loro folle distruzione.
È morto ma non siamo morti, non ancora, noi e di fronte a questa ubriacatura generale non abbiamo altro compito che quello di restare in piedi sulle rovine, di ricordare ai nostri nemici, soprattutto quelli che abbiamo in casa, che c’è chi non si arrende al fatalismo.

Siamo italiani. Siamo europei.
Non lo possiamo permettere.

 

 

Lorenzo Cafarchio

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