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Cartastràccia – Ungheria 1956

CARTASTRACCIA

Il libraio di Altaforte Edizioni racconta..

Capitolo 82 – Ungheria 1956

La rivoluzione scoppia in un momento. Budapest è un vento caldo che invade l’inverno dell’Europa. L’ottobre del 1956 ha ormai compiuto 65 primavere eppure pervade l’anima dell’Occidente di un torpore irrefrenabile. Una guerra intestina nel cuore pulsante del comunismo. Giuseppe Stalin era morto il 5 marzo 1953 e lo squarcio nel ventre molle della falce e del martello divenne pronto a divampare. Il successore del satrapo georgiano arrivò nella figura di Nikita Kruscev.

Il 25 febbraio 1956 al XX Congresso del PCUS il nuovo capo politico sovietico pronunciò al mondo comunista il memorabile discorso Sul culto della personalità e le sue conseguenze. Un autentico attacco atomico verso Stalin e la sua feroce dittatura. Rese pubbliche le diapositive di un terrificante “album di famiglia” scomodando l’aforisma di Rossana Rossanda – deputata del PCI e cofondatrice de il Manifesto – indirizzato al Pci e alle Br nel 1978. Un “album di famiglia” finito in mondo visione, mentre il discorso doveva rimanere confinato nelle quattro mura dell’uditorio. Ancora una volta la longa mano della CIA lo fece diventare di dominio interplanetario. In questo microclima trovano la loro dimensione i ragazzi di Buda ed i ragazzi di Pest.

CARTASTRACCIA ungheria 1956

Davanti a questo abbassamento delle difese. Davanti a questo lavaggio dei panni sporchi nel Danubio cresce il seme della rivolta. Controrivoluzione. Così gridarono i comunisti più intransigenti, ma così non fu. I leninisti dipingevano gli insorti come fascisti entrando in un ritornello diventato un sempreverde ancora oggi in voga. Secondo la visione di Indro Montanelli e di Francesco Cossiga la rivolta nasceva da dentro, dalla pancia del bolscevismo.

I giovani studenti ungheresi non volevano più saperne dello stalinismo, volevano allontanare, tornando a Kruscev “il culto della persona” un culto “andato continuamente crescendo” divenuto “fonte di tutta una serie di gravissime deviazioni dai principi del partito, dalla democrazia del partito e dalla legalità rivoluzionaria”. Volevano abbattere l’adorazione di Stalin proprio come fecero con la sua statua eretta a Budapest dallo scultore Sandor Mikus nel 1951. L’ottobre ungherese travolse il mondo come un atto d’eroismo, un atto di insurrezione contro la grande proletaria immobile, parafrasando Pascoli, che muoveva i suoi tentacoli da Mosca. Dal 23 ottobre al 11 novembre 1956 il mondo rimase con il fiato sospeso.

“Ecco avanzare in Ungheria lo spettro della reazione”. Per i fedeli alla linea come Sandro Pertini i magiari si mossero “sotto l’egida del clericalismo conservatore con l’intento di tornare al passato, annullando la democrazia e la libertà”. Così mentre i carri armati sovietici muovevano i loro cingoli verso Budapest Giorgio Napolitano, passato dai GUF in giovane età al centro nevralgico del Partito comunista italiano, fu ancora più esplicito. Quello che veniva dagli ungarici non era altro che “un focolaio di provazioni” instillato nel “cuore dell’Europa” in grado di condurre l’Ungheria “nel caos e nella controrivoluzione” invocando, per questo motivo, l’intervento della Russia “in maniera decisiva, non già a difendere gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”.

“Per chi sono queste forze, mio buon Signore?”. Amleto, atto IV, scena IV. Forse la tragedia shakespeariana per antonomasia ci riporta a quei giorni. A quei volti, a quegli studenti, a quegli operai, a quei padri, a quelle madri e soprattutto ai figli magiari di una terra millenaria. Comunisti, ancora visceralmente, esplosi davanti alla prevaricazione dell’anima e alle vessazioni della burocrazia alienante e spersonalizzante sovietica. “Può essere, un giorno… ‘Oggi o mai’ dice un vecchio poema ungherese divenuto simbolo del lamento popolare.

Tutti cantano ‘Oggi o mai’”. Ricorda Christian Bernadac nel suo straziante volume …a Budapest si muore – editato in Italia da Ciarrapico editore – portandoci tra le macerie e le quasi 3.000 vittime ungheresi. Il sapore del sangue, le idee che diventano eterne, le prime crepe nell’URSS di dimensione monolitica. Resterà ancora una ragazza a cui chiedere di “non dire a mia madre che io morirò questa sera”, come nella perenne melodia di Pier Francesco Pingitore. Tornerà l’Europa come le viole a primavera. Tornerà permanente mito che ha smesso di vedere il sole sorgere ad Est.

Di Lorenzo Cafarchio

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